Il Cacciatore di Piante – capitolo III: Dracaena draco


narrativa / mercoledì, Giugno 6th, 2018

Dracaena draco

 

Finii di mangiare il panino che mi ero portato per cena sulle gradinate della biblioteca. Nella penombra delle pareti, le finestre illuminate avevano un’aria rassicurante. Lasciavano scorgere gli scaffali ricolmi di libri e, sui tavoli, qualche studente immerso nella lettura.
Tutte le altre finestre dell’università erano buie.
Nella mezz’ora precedente avevo dato una veloce occhiata alle porte di accesso ai corridoi interni, ma nemmeno una era stata lasciata aperta.
Entrai all’interno della biblioteca. Sotto al peso dei passi, l’antico pavimento di legno emetteva qualche debole cigolio, tremendamente amplificato dalla silenziosità dell’ambiente. Notai di non essere il solo a camminare tra gli scaffali: tra i libri risuonavano altri passi, che parevano allontanarsi. Osservando la portineria deserta dedussi che doveva trattarsi del custode che, probabilmente stufo di stare al suo posto, si stava prendendo la libertà di sgranchirsi.
Mancavano cinque minuti alle ventuno. Cominciai a pensare di tornare a casa e lasciar perdere l’appuntamento. La ragazza che si faceva chiamare Anaid avrebbe potuto darmi spiegazioni l’indomani e poi, tutto sommato, mi sembrava decisamente eccentrico andare a cercare l’aula Ramón y Cajal nottetempo e di nascosto.
Feci scivolare pigramente lo sguardo attraverso l’ingresso aperto della portineria.
Senza preavviso l’istinto ancestrale del pericolo si risvegliò in me. Sentii il cuore accelerare i battiti e i peli rizzarsi sulla schiena: appese al lato di un tabellone a cui erano agganciate decine di chiavi, stavano la giacca di un abito da sera e una bombetta nera.
I miei occhi guizzarono più volte, quasi senza che potessi controllarli, dalla bombetta alle chiavi e viceversa.
Udii nuovamente il rumore dei passi, che ora parevano avvicinarsi.
Senza quasi rendermene conto mi tuffai nell’ufficio della portineria. Afferrai il primo mazzo che mi capitò, ma così facendo una grossa chiave vicina cadde con un tonfo in un cassetto aperto della scrivania. Guardai dentro al cassetto. Adiacente alla chiave, parzialmente nascosta da alcuni fogli di carta, c’era una pistola.
Mi precipitai fuori dalla stanza e poi fuori dalla biblioteca. Ancora non c’era nessuno alle mie spalle. Sentivo la fronte sudata e le mani mi tremavano, ma strinsi la presa attorno al mazzo di chiavi che avevo sottratto. Cominciai a cercare la porta corrispondente a quella indicata sull’etichetta del mazzo come se non avessi mai avuto alcun dubbio di recarmi all’appuntamento. Quando la trovai, dopo alcuni goffi tentativi, infilai nella serratura le chiavi rese scivolose dal sudore ed entrai.
Mi trovai nel patio su cui si affacciavano le finestre delle aule. In un angolo del giardino interno un Drago delle Canarie di stazza considerevole ergeva, immobile, le sue numerose teste verso la luna. Su ciascuna di esse un ciuffo di rigide foglie a forma di spada raccontava della parentela tra Dracaena draco e le agavi. A una pianta del genere mancava soltanto di sputare fuoco per essere come la creatura leggendaria della quale portava il nome, pensai.
Nel loggiato opposto a quello dov’ero alcune finestre erano illuminate da una luce delicata, come se non fossero state accese le principali, ma solo una lampada da scrivania.
Mi avvicinai cauto e cominciai a sentire le voci di persone che discutevano all’interno.
Quando fui in prossimità della porta socchiusa mi soffermai ad ascoltare.
«Mi sembra incredibile che il ragazzo si sia inventato il nome della pianta.»
«Sei sicuro che davvero non ne sappia nulla?»
«Mia figlia ne è convinta.»
«Tua figlia non sempre è affidabile.»
Si zittirono un attimo e mi assalì la sensazione di essere stato sentito.
«Questo non ti riguarda. Per ora desidero che tu faccia una cosa.»
«Sono ai tuoi ordini.»
«Il ragazzo può esserci utile. Non deve cadere nelle mani di Montero. Desidero che tu faccia tutto il possibile affinché Montero si disinteressi del ragazzo. Non mi importa come, ma devi raggiungere questo obiettivo.»
Una risata sommessa.
«Sapevo che me l’avresti chiesto. Ho già un piano.»
Un’ombra si delineò sulla finestra che mi era più prossima, facendosi rapidamente più piccola e definita. Misi in fretta la mano sulla maniglia della porta, ma non feci in tempo ad aprirla che venne spinta dall’interno.
Un individuo dalla faccia familiare mi si parò davanti, ma senza dire nulla in un istante si girò di lato e scomparve nell’oscurità.
Feci un passo all’interno dell’aula e un uomo dall’aria distinta si presentò come il prof. Flores. Stava seduto alla cattedra, sulla quale una lampada da tavolo illuminava ordinate pile di fogli.
«Ti stavo aspettando. Spero tu non abbia avuto difficoltà a trovare l’aula.»
Risposi di no.
«La straordinarietà dello studio che sto conducendo mi impone di lavorare in momenti tranquilli. Forse mia figlia ti ha già accennato qualcosa.»
«Sì e ne so abbastanza per dire che non vorrei essere coinvolto ulteriormente in questa faccenda.»
«Non preoccuparti, Gallardo penserà a sistemare la questione degli uomini che ti stanno cercando. Vedrai che non te ne dovrai più preoccupare.»
«Gallardo è l’uomo che ho incrociato entrando? Mi sembra di averlo già visto.»
«Sì, è lui. Probabilmente lo hai visto nell’ostello dove hai soggiornato, del quale è il proprietario. In realtà è il suo secondo lavoro, dato che è un dipendente dell’università.»
Si fermò a scrivere qualcosa su di un foglio, al che approfittai per chiedergli come mai mi avesse dato appuntamento.
«Vorrei che tu mi dicessi tutto ciò che sai sull’Abritonide.»
«Mi dispiace deluderla, ma è solo un nome che ho inventato.»
«Come mai allora lo hai annotato sul Trattato di Botanica Sistematica dell’Hooker, nella sua edizione Padovana di cinquant’anni fa?»
«Il nome mi piaceva, tutto qui.»
«E il libro? Cosa mi dici del libro? Lo sai che William Jackson Hooker nelle sue tassonomie vegetali ipotizzò l’esistenza di una pianta con caratteristiche sistematiche molto simili a quelle dell’Abritonide? Un’invenzione anche la sua? Così pensarono tutti gli studiosi che gli seguirono. Io tuttavia non credo fosse un’invenzione. Così come ho il sospetto che il nome che hai appuntato non sia scaturito da un tuo sogno.»
«Il libro è un ricordo di famiglia. Avrei potuto portare con me un’edizione più moderna, ma a quel volume sono legato affettivamente.»
«Ah sì? E ti piacerebbe ritrovarlo?»
L’improvviso cambio di tono nella voce del professore mi insospettì, ma stetti al gioco.
«Ci terrei molto a riaverlo.»
«Se desideri ritrovarlo allora devi aiutarci. Il nostro obiettivo è trovare la pianta. Cercando la pianta ci metteremo sulle tracce anche del tuo libro.»

*

Quando uscii dall’università erano passate le dieci e mezza. Avevo lasciato le chiavi sulla cattedra ed era stato come liberarmi di un peso.
Stavo camminando a passo veloce attraverso Piazza Candelaria. Gli schiamazzi diurni dei pappagalli erano cessati e l’aria pareva immobile.
Tenendomi a debita distanza lanciai uno sguardo in direzione della Bougainvillea, ma il gruppo di clochard sembrava non essere mai esistito. Stavo cominciando a percepire un’altra forma di sollievo, simile a quella provata per le chiavi, quando li vidi.
Erano in cinque, vestiti con gellabe, le tradizionali tuniche arabe. Tra di loro riconobbi l’individuo che mi aveva sottratto lo zaino. Stavano in piedi a formare una catena umana che sbarrava l’accesso alla via che avrei dovuto imboccare. Guardando in direzione della Bougainvillea mi ero distratto ed ero arrivato a pochi metri da loro senza accorgermene.
Quasi materializzandosi dall’ombra di un edificio comparve l’uomo in smoking e bombetta. Con larghi passi si mise tra me e il gruppo di clochard, dando loro le spalle.
Quando la luce di un lampione illuminò il suo volto, mi resi improvvisamente conto di riconoscerlo.
Era l’uomo che avevo incrociato entrando nell’aula Ramon y Cajal. Era il proprietario dell’ostello che aveva fotografato il trattato di botanica sul mio letto. Era probabilmente il portinaio della biblioteca, che arrotondava il suo stipendio tra ospitalità e servizi personalizzati per eccentrici professori.
L’aver compreso di trovarmi di fronte a un alleato dissolse la paura. Una sensazione di insensata serenità mi pervase e mossi qualche passo verso di lui, mormorando il suo nome.
«Gallardo.»
Rispose con sguardo amichevole. Mi fece un occhiolino che gli uomini alle sue spalle non poterono vedere e avvicinò l’indice della mano sinistra alle labbra, come a indicare di non farmi sentire.
La mano destra invece si infilò sotto allo smoking.
Estrasse la pistola e me la puntò contro.
Prima che potessi realizzare cosa stesse succedendo fece fuoco.
Percepii tre spari e tre botte tra torace e addome. Rivolsi lo sguardo sulla mia maglia. Vi vidi un piccolo batuffolo bianco e due macchie rosse che tingevano il tessuto. Poi i colori si mescolarono in forme caleidoscopiche e la terra si avvicinò violentemente al mio viso. Ma non sentii nulla.

 

 

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