Il Cacciatore di Piante – Capitolo XI


narrativa / mercoledì, Agosto 15th, 2018

Ecballium elaterium

 

 

Anaid era distesa prona sulla sabbia di spiaggia Vittoria con un foglio e una penna in mano. Guardava il sole avvicinarsi piano al mare mentre si metteva la penna sulle labbra, poi aggiungeva qualche parola alla lista di cose da portare nella spedizione in Marocco.
«Un navigatore GPS può esserci utile, cosa ne pensi?»
Non sapevo come dirle che intendevo abbandonare la ricerca e rimandai il momento in cui ci avrei pensato. «Credo che potrebbe essere di vitale importanza. In ogni caso non dimenticare anche carte geografiche e una buona bussola.»
«Già messe nella lista», disse sorridendo. «Il navigatore è utile per fornire a mio padre costantemente la nostra posizione, nel caso ci separassimo.»
Mi sedetti su di uno scoglio e restai a osservarla. Il caldo ottobre del trentaseiesimo parallelo rendeva l’inverno un pensiero ancora lontano per piante e animali. La brezza serale era tiepida e i vestiti della ragazza in bikini erano dimenticati in un angolo del telo da spiaggia. I capelli neri e lisci erano sparsi sulla schiena abbronzata. Il sole radente dipingeva con morbide ombre le spalle tornite, il solco vertebrale e le fossette di Venere.
Tra lo scoglio e il telo dov’era distesa, la spiaggia era colonizzata da alcune piante dalle foglie crespe. Ecballium elaterium pensai divertito. Non conoscevo pianta più divertente di questa, anche chiamata cocomero asinino.
Con un movimento repentino qualcosa si mosse tra le foglie.
«Ehi», esclamò Anaid saltando in piedi. «Cosa mi hai tirato?»
«Niente. Io niente», dissi serio. Poi scoppiai a ridere.
Mise le mani sui fianchi e mi guardò imbronciata. «Mi hai tirato qualcosa sulla schiena, adesso vengo lì e te la vedi con me», disse a metà tra l’offeso e il divertito. Cominciò a muoversi in mia direzione.
«No ferma», dissi ridendo. «Non andare lì se non vuoi che…»
Non feci in tempo a finire la frase che con due passi piombò in mezzo ai cespugli di Ecballium. I frutti maturi cominciarono a esplodere proiettando i semi in tutte le direzioni con una forza incredibile per un vegetale.
«Sei finita in un campo minato.»
«Che diavolo di pianta è questa?»
«Una cucurbitacea, parente delle zucche. Ha un metodo molto particolare di diffondersi.»
«L’ho notato. Tu non aspettavi altro che vederla all’opera, o sbaglio?», disse fingendosi arrabbiata.
«Ora se vuoi raggiungermi devi superare una distesa di frutti che hanno al loro interno una pressione maggiore di quella di uno pneumatico e sono pronti a sparare i loro semi a dieci metri al secondo.»
Si chinò a osservare uno dei piccoli cocomeri ovoidali. Lo colpì col dito e subito si staccò dal picciolo proiettando il suo contenuto a una decina di metri di distanza. «Interessante. Molto interessante: non esplode tutto il frutto, ma i semi vengono lanciati solo dall’estremità del picciolo. Può diventare un’arma.»
Orientò delicatamente un frutto nella mia direzione e venni schiaffeggiato da una grandinata di semi. Scoppiò a ridere. Non feci in tempo a scendere dalla roccia che fui colpito da un secondo sciame di pallini neri. Al terzo però le andò male e il getto le colpì la fronte. Al che decise di affrontare il resto del percorso nella mia direzione.
Raggiunse lo scoglio, mi prese con forza il polso e mi trascinò in mezzo alla colonia di Ecballium.
Ci fronteggiammo nel tentativo di spingerci a vicenda verso i frutti maturi finché non perdemmo entrambi l’equilibrio e finimmo su di un grosso esemplare che ci accolse con decine di piccole esplosioni.
Quando ci rialzammo eravamo coperti dalla testa ai piedi di appiccicose sfere brune.
Si passò la mano sull’addome per cercare di pulirsi. «E adesso?»
«Bagno.»
«Ci sto.»
Corremmo verso il mare che si stava ritirando per la bassa marea. Un velo d’acqua alto fino alla caviglia si spostava ritmicamente avanti e indietro per diversi metri sul bagnasciuga. Mentre la massa fluida che per prima era avanzata sulla riva si ritirava verso l’oceano, una nuova onda le scorreva sopra come se fosse olio sull’acqua e i turbini che ne derivavano erano carezze sui nostri piedi.
Avanzammo verso il sole che si immergeva nell’orizzonte liquido fino a che il freddo ci fece ansimare. Ci guardammo come se avessimo avuto la stessa idea e cominciammo a schizzarci. Le gocce incendiate dagli ultimi raggi parevano diamanti, zaffiri e topazi mentre i nostri corpi percorsi da piacevoli brividi riflettevano i colori del tramonto.
Avanzammo fino alla linea dove le onde si infrangevano sul fondale e ci tuffammo nella schiuma bianca. Percepivo la potenza dell’Atlantico, che mi spostava come un fuscello tra abbracci ed energetiche spinte. Un’onda portò Anaid verso di me e sentii la sua pelle scivolare sulla mia. Mi sorrise, poi guardammo entrambi verso il tramonto trattenendoci a vicenda per restare stabili nella corrente.
Mancavano pochi istanti prima che il sole scomparisse.
«Si dice che l’ultimo raggio del sole sia di un colore verde. Il verde più bello che si possa vedere», sussurrai.
«Davvero? Raccontami.»
«Jules Verne lo descrive così: un raggio verde, ma di un verde meraviglioso, di un verde che nessun pittore può ottenere sulla sua tavolozza, un verde di cui la natura né nella varietà dei vegetali, né nel colore del mare più limpido, ha mai riprodotto la sfumatura. Se c’è del verde in paradiso, non può essere che quel verde, il vero colore della speranza», citai.
«Vorrei vederlo», disse appoggiando la testa sulla mia spalla.
«Una leggenda scozzese dice che chi riesce a catturare con lo sguardo quest’effimero raggio dell’anima sarebbe in grado di riconoscere con chiarezza i sentimenti propri e altrui.»
Il rumore delle onde si mescolò senza preavviso a quello di un motoscafo dal motore spinto al massimo. Il mezzo comparve in pochi secondi alla nostra vista, sollevando una scia di spuma.
Lo seguimmo con lo sguardo fino a che non fu abbastanza vicino per leggere la scritta bianca sulla fiancata nera.
«Montero Pharma», lesse Anaid.
D’improvviso percepii il gelo dell’acqua in cui eravamo immersi. Fissammo il motoscafo mentre si allontanava verso il lato opposto dell’isola. Quando tornammo a guardare in direzione del sole, era già scomparso oltre l’orizzonte.
Come due antilopi che avessero percepito il pericolo del leone cominciammo a correre verso la riva mentre il cielo si tingeva di rosso sangue.
Ci asciugammo freneticamente e cominciammo a dirigerci verso la strada mentre ancora stavamo finendo di vestirci. Anaid accese il cellulare e fece un’esclamazione di stupore. «Venti chiamate», disse mentre avvicinava il telefono all’orecchio aspettando che le rispondesse il numero sconosciuto.
Quando chiuse il telefono mi guardò con uno sguardo che non le avevo mai visto.
«Hanno sparato a mio padre. Gli hanno sparato alle gambe. È in ospedale.»

*

Erano passati cinque giorni da quando avevo accompagnato Anaid in ospedale. Dal momento in cui attendevamo finisse l’intervento chirurgico nel reparto di ortopedia dell’ospedale Puerta del Mar, l’agitazione non l’aveva più abbandonata.
«Non riesco a concentrarmi», mi disse a metà di una lezione di farmacologia. Si alzò in piedi e uscì dall’aula. La raggiunsi nel corridoio.
«La ferita di tuo padre guarirà, i chirurghi hanno fatto un ottimo lavoro.»
«Lo so. Quello che mi fa rabbia è altro», disse con voce tremante. «Mio padre continua a dire ai medici che si è sparato da solo, per errore, mentre stava pulendo un vecchio fucile che tiene in casa.»
«Ancora non si arrende. Non pensavo che dopo due attentati alla sua vita ancora potesse continuare a voler evitare un’indagine della polizia.»
«Non capisce che la sua vita vale di più della priorità nella scoperta di una pianta.»
Il telefono di Anaid ricevette un messaggio. «È lui. Vuole parlarci.»
Quando raggiungemmo la sua stanza d’ospedale lo trovammo agitato. Le coperte erano in disordine sul letto ed egli sembrava molto dimagrito.
Dopo averci salutati andò subito al punto. «Ho capito che sto pretendendo troppo da voi, ragazzi. Non voglio che andiate a cercare la pianta in Marocco. Anzi, ve lo proibisco. È troppo pericoloso. Il tradimento di Gallardo ha cambiato le cose. Solo ora me ne rendo conto.»
«Papà, io continuerò la ricerca dell’Abritonide.»
«Sei come tua madre. Anche lei era così determinata», sussurrò, per poi interrompersi quando un medico entrò nella camera.
«Lei è la figlia?», chiese il dottore.
«Sì, sono io.»
«Mi segua, per favore.»
Entrammo in uno studio.
«Suo padre ha sviluppato un’infezione. Abbiamo ricevuto oggi gli esiti dell’esame colturale. Si tratta di uno Streptococco multi drug resistant, ovvero resistente alle comuni terapie antibiotiche. Abbiamo iniziato una terapia con antibiotici ad ampio spettro, ma se non sono sufficienti dovremo ricorrere a delle opzioni chirurgiche. C’è la possibilità che suo padre perda la gamba.»

*

Anaid era raggomitolata sul divano nello studio di suo padre. Abbracciava le gambe portate al petto, con uno sguardo perso nel vuoto.
«Più il tempo passa e più gli antibiotici perdono efficacia. L’uso irrazionale delle poche molecole che abbiamo per fermare un’infezione ha portato alla diffusione di batteri resistenti», disse triste.
Mi misi al suo fianco e la strinsi in un abbraccio. «Tuo padre ce la farà, è forte.»
«Ce la farà se non svilupperà una setticemia. Ce la farà, ma non sappiamo a che prezzo. E io non posso fare nulla. Mi sento impotente.»
Nell’acquario a qualche metro da noi ci fu un silenzioso guizzo bianco. L’Axolotl ci stava osservando con sguardo eternamente innocente e il suo sorriso immutabile carico di mistero.
«Troveremo la pianta», dissi con decisione.
«Mio padre ha detto che…», iniziò a controbattere.
«Non importa cos’ha detto tuo padre. Troveremo l’Abritonide e salveremo la sua gamba.»
Come se fosse venuto per ispirarmi e avesse portato a termine il suo compito, l’Axolotl tornò in qualche invisibile recesso dell’acquario.
«Tu sapresti trovare Zayd?», chiesi mentre già cercavo sullo smartphone un volo da Siviglia a Casablanca.
«Sì, non è difficile, vive nella medina vecchia, vicino al suq.»
«Bene. Allora cominciamo a raccogliere le cose che hai segnato sulla lista per la spedizione.»

 

 

 

 

 

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