Il Cacciatore di Piante – Capitolo XV


l'universo invisibile dei profumi, narrativa / lunedì, Settembre 10th, 2018

– Petricore –

 

 

«Non posso spingermi oltre. Qui inizia il territorio della Tribù della figlia del Sole», disse Zayd.
«Cosa ti impedisce di farlo?», chiesi. «Nella cultura matriarcale non esistono confini.»
«Non esistevano confini», mi corresse. «Ora queste tribù stanno scomparendo. Vivono assediate dal mondo che sta fuori da queste cime. Vivono assediate dal turismo consumistico, che invade i loro luoghi sacri. Vivono assediate dallo Stato, che impone le proprie leggi e la propria religione.»
«In ogni caso non c’è alcun muro.»
«Non c’è un muro, ma c’è un confine», disse raccogliendo e mostrandomi una piuma di corvo. Ne notai altre col calamo infilato nella terra. «Anche queste tribù, ora, hanno i propri guerrieri. Nessuno sciamano, senza essere invitato, può violare il territorio di un altro sciamano senza perdere i propri poteri. Io non farò un altro passo.»
«Non possiamo fermarci proprio ora, Zayd.»
«Non piove da mesi. Gli animali sono assetati e gli umani nervosi. È il momento peggiore per fare passi falsi», disse scuotendo la testa. Raccolse alcune pietre e le dispose in cerchio, dopodiché, a gambe incrociate, vi si sedette al centro.
«Io vado avanti», disse Anaid.
La guardai e annuii. Zayd non rispose. Aveva iniziato a mormorare suoni incomprensibili toccando le pietre con la piuma.
Capimmo che ci avrebbe lasciati liberi di proseguire e che sarebbe restato lì ad attenderci. Con un passo superammo il confine tanto temuto dallo sciamano. Non accadde nulla e sollevati riprendemmo il passo di marcia.
Dopo alcuni minuti notai un corvo imperiale che saltellava su di un masso sopra alle nostre teste.
«Guarda, dev’essere il proprietario di quelle penne», dissi indicando la sua livrea scura. Il nero del Corvus corax mi stupiva per la sua intensità. Pensai che dovesse essere il colore più scuro prodotto dalla natura.
«Ha un’aria molto intelligente.»
«Sì, lo è. Pensa che può essere anche addomesticato.»
L’animale ci seguì per un tratto. Sembrava interessato alla nostra presenza. Con brevi svolazzi ci precedeva sul pendio, per poi attendere che lo raggiungessimo e riprendere a saltellare.
Raggiungemmo un punto da cui finalmente riuscimmo a scorgere il fondovalle. Il corvo imperiale si gettò nel vuoto, gracchiando con voce profonda. Lo seguimmo con lo sguardo mentre planava verso un piccolo agglomerato di case.
«La tribù della Figlia del Sole», dissi.
«Questo dev’essere il villaggio che cerchiamo.»
Gli edifici erano semplici cubi del colore della sabbia. Il loro ocra non era molto distante dal colore di una stentata piantagione che li circondava.
Quando ormai le vesciche ai piedi cominciavano a farsi sentire raggiungemmo la piantagione. Notai che era costituita interamente da alte piante di Cannabis indica alla fine del loro ciclo annuale. Non trovammo una strada per attraversarla e iniziammo a farci largo tra i fusti.
Quando raggiungemmo le case, tutto pareva deserto.
Alcune magre galline razzolavano sul terreno battuto e due fuochi ardevano al limitare del terreno coltivato, ma non c’era traccia di esseri umani. Poi, silenziosamente, una figura comparve da dietro un edificio e si fermò poco distante da noi.
Era avvolta da drappi colorati su cui erano cucite numerose piume. Con una mano reggeva una maschera di legno e i suoi occhi brillavano attraverso una fessura. Su ciascuna spalla stava aggrappato un macaco, mentre sulla testa era appollaiato il corvo imperiale.
Anaid mi fece segno di stare fermo. Restammo immobili e in silenzio fino a che cominciai a perdere la cognizione del tempo. Mi riscossi e notai che una fitta cappa di fumo ci stava avvolgendo. Guardai in direzione di un falò e vidi che vi erano stati aggiunti dei grossi fasci d’erba: l’odore della cannabis mi stava togliendo il respiro, mentre le idee iniziavano a mescolarsi nella sonnolenza. Lo sguardo di Anaid era perso nel vuoto.
«È una trappola», dissi mentre l’istinto della preda si risvegliava in me. Diedi uno strattone ad Anaid, che parve risvegliarsi.
Le scimmie scesero dalle spalle dello sciamano e con un urlo aggressivo ci vennero incontro.
Cominciammo a correre e ci tuffammo nella piantagione.
Sentivo la pelle coprirsi di resina appiccicosa mentre mi sforzavo di muovermi il più velocemente possibile tra le infiorescenze.
Come in un sogno raggiunsi il luogo dove attendeva immobile Zayd.
Mi voltai.
Constatai che non mi seguiva nessuno.
Nessuno.
Nemmeno Anaid.

Quando ripresi lucidità erano passate alcune ore e il sole pomeridiano cominciava a far allungare le ombre.
«Questo è ciò che accade quando si entra in casa di qualcuno senza invito», disse Zayd.
«Hanno preso Anaid», dissi tornando completamente in me.
«Chi può dirlo», rispose stoicamente lo sciamano. «Tu hai visto che la catturavano?»
«Effettivamente no.»
«L’unica cosa che sappiamo è che, ora, non è qui con noi.»
«Devo ritrovarla», dissi alzandomi di scatto.
«Che spirito ansioso e irrequieto. Siediti. Se torni là adesso cadresti nello stesso errore di prima.»
«Lo so che è un suicidio, ma non ho idee migliori.»
«Io invece sì, non per niente sono uno sciamano.»
Lo guardai. La sua calma non smetteva di stupirmi.
«La prima idea migliore è pensare a un’idea migliore», disse in modo convinto. «La seconda idea migliore è pianificare le nostre azioni.»
«Ancora non mi hai detto nulla.»
Mi guardò stupito. «Ho detto la maggior parte, invece.»
Sospirai.
«Il piano è essere accettati da loro», continuò. «Se vuoi ritrovare Anaid e, poi, se vuoi che ti svelino dove custodiscono la pianta, devi conquistare la loro fiducia.»
«E come? A questo punto non mi lascerebbero avvicinare nemmeno se fossi il loro sciamano.»
«Non esagerare, quello che hai detto è impossibile. Infatti io farò di te il loro sciamano.»
Lo guardai incredulo. «Sei sicuro che sia io quello che esagera?»
«Certo. Vieni, cominciamo il rituale.»

Si arrampicò su di un’alto masso da cui lo sguardo poteva spingersi fino al fondovalle. Con un po’ di fatica lo imitai, fermandomi poco più in basso.
«Guarda. Da qui si vedono cinque recinti di asini e capre. Adesso osserva bene gli animali.»
Mentre fissavo lo sguardo sugli spazi che mi aveva indicato, egli cominciò a prendere dei profondi respiri. Poi lanciò un grido.
Non era un grido qualunque. Mi resi conto che era molto più melodico. Modulava la voce come in un kulning, l’antico canto che i pastori scandinavi usavano per richiamare il bestiame. Al contempo però conteneva le inquietanti vibrazioni dell’ululato di un lupo.
Mentre gli echi rimbalzavano fra le pareti rocciose, gli animali iniziarono ad agitarsi. Gli asini scalpitavano e le capre saltavano irrequiete. Alcuni uomini raggiunsero i recinti per cercare di controllare le bestie, ma la tensione raggiunse un punto tale che esse saltarono gli steccati e fuggirono sparpagliandosi per la valle.
Tornò il silenzio e lo sciamano riprese fiato.
«Ora passiamo alla seconda parte del piano. Tu sarai il loro messia: farai ritorno al villaggio seguito dagli animali.»
«Dovrei andare a riprenderli uno a uno?», chiesi incredulo.
«Saranno loro a venire da te. In tasca custodisci qualcosa di molto speciale, non ricordi?»
«Il Petricore.»
«Il profumo stesso della tempesta.»
Estrassi la boccetta e la guardai controluce.
«Nei villaggi stanno razionando l’acqua», continuò. «La pioggia è in ritardo di mesi. Gli animali sono assetati. Percepirebbero il suolo bagnato a chilometri di distanza.»
Si inginocchiò e iniziò a colpire la roccia con un sasso, producendo una polvere bianca. Quando ne ebbe abbastanza estrasse dal sacchetto dell’albergo mezzo litro d’acqua e una bottiglietta d’olio.
«Ora svestiti completamente e riponi lo zaino e i tuoi vestiti dietro quelle rocce sottovento. Gli animali non devono sentire il tuo odore.»
Quando tornai sulla cima della roccia ero completamente nudo.
«Adesso indossa i tuoi nuovi indumenti», disse indicandomi l’impasto di pigmento bianco.
Avevo capito. Indossando quell’abito rituale fatto di solo colore avrei annullato qualsiasi odore del mio corpo. Iniziai a spalmarmi e continuai fino a che ogni centimetro della mia pelle fu completamente bianco.
«Benvenuto, o Spirito della Terra», disse Zayd con voce potente.
Mi guardai in giro ma non vidi nessuno. Poi, con un brivido, mi resi conto che si riferiva a me.
«Accostati al punto più alto, dove la roccia si mescola all’aria. Osserva il tuo respiro, o Spirito della Terra.»
Mi sedetti a gambe incrociate, nel punto che mi sembrava più comodo.
Lo sciamano afferrò la boccetta di Petricore e si portò alle mie spalle, mentre io osservavo le montagne dipinte dal sole che vi affondava.
L’odore ozonico dei fulmini riempì le mie narici. Capii che aveva aperto la boccetta. Percepii nella mente gocce che iniziavano a idratare una terra assetata, mentre una pioggia di profumo cadeva tra i miei capelli e scorreva sulla fronte e sulle spalle. Piccoli torrenti scavavano il proprio greto sulla terra che vestiva il mio corpo e creavano arabeschi arborescenti.
«Osserva il tuo respiro, Spirito della Terra», ripeté. «Esso fugge da te verso il Cosmo, ma sempre torna, portando dentro di te parte del Cosmo. Esso sempre torna, come il cerchio della vita.»
Iniziavo a non percepire più il confine tra il mio corpo e la roccia su cui ero seduto. Ero completamente rilassato.
«Osserva il tuo respiro», disse un’ultima volta, ma ormai le sue parole mi parevano lontane e poco importanti. Il mio essere coincideva con la brezza stessa che ritmicamente fluiva in me.
Le Orionidi, stelle cadenti d’Ottobre, dipingevano fugaci lacrime infuocate tra il blu di Rigel e la rossa Betelgeuse.
Le costellazioni ruotarono attorno all’astro del nord fino a che le montagne di cui ero parte iniziarono a essere scaldate dalla dolce aurora.
Percepii la vita riprendere il suo corso nella ciclica armonia del giorno. Il canto degli uccelli si fece intenso. Sentivo la vita brulicare tra quelle montagne che mi erano sembrate sterili all’inizio. Piccoli movimenti e il respiro di centinaia di creature lentamente mi fecero emergere dalle profondità dello spirito.
Mi alzai e in una via di mezzo tra lo stiracchiarsi e un gesto sacro levai le braccia al sole. Poi mi guardai attorno.
Ero circondato da animali di ogni specie.
Forse più di un centinaio di capre e decine di asini mi guardavano con occhi placidi, ma non erano i soli. Un numero indefinito di macachi, alcuni sciacalli, un fennec e uno stuolo di piccoli roditori attendevano senza conflitti.
Zayd, invece, non si vedeva da nessuna parte. Tuttavia continuavo a sentire dentro di me una calma profonda.
Scesi dal masso e iniziai a camminare in direzione del villaggio, seguito dal corteo di creature dell’Atlante.
Mentre attraversavo il fondovalle donne e uomini, non più nascosti, mi guardavano incantati. Bambini senza timore aggiunsero una rappresentanza umana alla folla.
Quando raggiunsi il villaggio, lo sciamano della Tribù della Figlia del Sole era lì ad attendermi.
Sostenni lo sguardo dei terribili occhi dipinti sul legno che gli copriva il viso. Il corvo e i due macachi addomesticati erano sempre su di lui. All’improvviso però, presi da un istinto irrefrenabile, abbandonarono le sue spalle e la sua testa e mi raggiunsero. Il corvo si posò su di una mia spalla e le due scimmie restarono ai miei piedi.
Lo sciamano restò per un attimo immobile, poi, come ad ammettere la sua sconfitta, abbassò la maschera.
Era una donna dallo sguardo fiero. I capelli bianchi erano adornati da centinaia di penne di corvo e il viso reso saggio da una fitta ragnatela di rughe.
Si avvicinò con passi lenti. Quando mi fu vicina mi porse la maschera.
Ero commosso da quel gesto. Non sapendo bene come comportarmi presi la maschera e la baciai sulla fronte lignea. Poi gliela restituii.
Con la mano mi fece cenno di entrare in un edificio di arenaria.
Nella penombra, stesa su di una stuoia, Anaid giaceva addormentata. La donna sciamano le si avvicinò e con una carezza la svegliò. Quando aprì gli occhi e mi vide ebbe un sussulto. Poi capì e si precipitò ad abbracciarmi.
«Come stai?», chiesi preoccupato.
«Bene, tranquillo. Mi hanno trovata addormentata nel loro campo di marijuana», disse ridendo.
«Ti hanno trattata bene?»
«Sì, quando si sono accorti che non ero pericolosa mi hanno accolta. Ma erano ben determinati a non lasciarmi andare e a non far entrare nessun altro al villaggio. È incredibile che tu sia qui.»
«È merito di Zayd.»
«E lui dov’è?»
«Scomparso. Ha compiuto la sua magia e se n’è andato.»
«Tipico di Zayd.»
Fece qualche passo indietro e mi osservò. «Sembri un fantasma», disse. Poi aggiunse ridacchiando «adesso che la recita ha avuto successo è meglio se ti vesti un po’.»

Quella sera tutta la tribù della Figlia del Sole si riunì attorno a un grande falò al centro del villaggio. Ci vestirono con i loro abiti. Ci offrirono i cibi migliori e raccontarono storie che non potevamo capire. Non parlavano nessun altro idioma oltre alla loro lingua madre. Jedjiga, la donna sciamano, risolse il problema portando vicino a noi un’ampia lastra di ardesia, su cui iniziò a illustrare le scene che narravano. Lo faceva tracciando disegni con della sabbia sottile che lasciava scorrere tra le dita.
Dopo un po’ entrò in discorsi seri. Ci fece capire che era preoccupata, perché i guerrieri della tribù non erano ancora tornati da un viaggio verso terre lontane. L’unico modo che avevano per difendersi era quello usato su di noi, attraverso i fumi della Cannabis.
Infine mi chiese cosa volessi in cambio per aver recuperato il bestiame.
Presi una manciata di sabbia e cominciai a disegnare.
Riprodussi al meglio il disegno dell’Abritonide che decorava la copertina del Manuale di Botanica Sistematica di Hooker.
Quando ella lo vide si fece improvvisamente seria. Pronunciò una parola ad alta voce e sull’atmosfera festosa calò un silenzio glaciale. Tutti guardavano nella nostra direzione trattenendo il respiro.
Dopo minuti che sembrarono ore Jedjiga annuì, indicandomi. Mi avrebbe rivelato il più grande segreto di cui era custode.
Ma prima, mi fece capire, era necessaria l’iniziazione sulla vetta del Jbel Toubkal, la montagna da cui si vede tutto.

 

 

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